IL GIOCO È UNA COSA SERIA

di Manuela Trinci, psicoterapeuta infantile, direzione scientifica ludo-biblio AOU Meyer

Dribblano, palleggiano, danno di tacco, danno di punta, di controbalzo e di contropiede, affondano, crossano, rinviano, si smarcano, sciabolano e scivolano corrono e al momento opportuno, come i migliori top player, alzano al cielo le braccia e sognano di parare come Buffon… sono loro, i ragazzini in campo, tutti matti per la palla!
Vero è che tutte le declinazioni del gioco con la palla, (calcio, basket, rugby, pallavolo ecc.), stimolano le sensazioni che provengono dal corpo dando la percezione di dove il proprio corpo si trovi nello spazio, di quali siano i propri desideri di potenza o, di contro, i limiti di resistenza fisica e mentale. Sono giochi che mettono a confronto anche i più piccoli con sentimenti turbolenti ora legati alla sconfitta ora al piacere della vittoria; in altre parole sentimenti da imparare a gestire e a condividere fra i compagni di squadra così come con gli avversari!

Purtroppo, oggigiorno, altrettanto vero è che l’approccio dei ragazzi ai giochi di palla (soprattutto al calcio) è spesso uno specchio attraverso cui si riflettono comportamenti e atteggiamenti degli adulti: competitività e agonismo esasperati ed esclusione dei più deboli e dei meno dotati. E anche i genitori migliori non sempre sono esenti da una tifoseria modello-curva-nord che amplifica, anziché contenere, sentimenti e risentimenti nel cuore dei loro bambini.
Sebbene non si possa parlare specificamente di una “pedagogia della palla”, diciamo che molte sono le voci scese in campo per trovare legami fra palla, bambini ed educazione. Prova ne sia la Carta dei Diritti dei Ragazzi allo Sport (Ginevra 1994) con la quale un nutrito staff di pedagogisti, pediatri e allenatori sanciva l’importanza di assumere il punto di vista dei bambini contrapponendo, quindi, divertimento e partecipazione a prestazione e ansia di vittoria, e sviluppando, nel contempo, capacità di confronto e di cooperazione. Quello che educa nel giocare alle molteplici declinazioni della palla, spiegavano gli esperti, è la capacità di giocare da soli o con i propri compagni di squadra, con la propria corporeità e con le precise regole che rendono possibile il dispiegarsi del gioco stesso.
Con la palla si gioca, infatti, in gruppo, si gioca in campo, ma anche nelle strade, nei giardini e nelle scuole, si gioca a palla cavaliera, prigioniera, avvelenata… Giochi d’antan che non passano di moda e che fanno parte della cultura in cui si nasce e si cresce.

D’altra parte anche Carlo Magno giocava a palla, il medico Galeno raccomandava il palleggio come esercizio igienico, e galeotta fu la palla, sfuggita per un balzo alle ancelle, che segnò l’avviarsi del delicato sentimento fra Ulisse e la bella Nausicaa.
La palla è un’eco d’infanzia, un balzo morbido, sonoro. Un gioco che inizia quando le mani del bebè si avventurano lungo i contorni lisci e imparano piano piano ad afferrare. Rincorrerla poi, calciarla lanciarla in aria per vederla tornare a terra e rimbalzare sono gesti, movimenti fondamentali, che aprono ogni bambino alla scoperta dello spazio, della tridimensionalità, della gravità, del nesso causa effetto.

Che oggi le palle si chiamino modernamente big sun, crazy sun… che siano colorate, sensoriali, musicali, fluttuanti, di cuoio o di spugna, rimangono in assoluto il giocattolo più malleabile e adattabile che si possa immaginare, si addicono, infatti, al gioco di squadra come alla solitudine. E forse in quell’eco di infanzia, in quello sguardo gettato a ritroso, risuona per molti la filastrocca che accompagnava le sfide in solitario, contro il muro, con palleggi man mano sempre più difficili. Bisognava battere le mani, poi fare la giravolta, successivamente inginocchiarsi, rimanere in equilibrio su una gamba sola, farsi il segno della croce, e infine chiudere con “olio, pepe e sale, la palla cade in terra e poi risale”.