CURIOSITÀ


È la domanda che abbiamo posto alla professoressa Elena Chiappini, pediatra del Meyer, e a cui cerchiamo di dare risposta in modo davvero molto semplice. Ovviamente, per ragioni di maggiore comprensione, abbiamo semplificato meccanismi complessi.

Innanzitutto chiariamo che cos’è l’antibiotico: è una sostanza chimica prodotta da alcune specie di microrganismi (quali muffe e batteri) o ottenuta per sintesi (chemioterapici). Nella sua azione di farmaco, l’antibiotico è capace di bloccare la riproduzione del batterio oppure di ucciderlo.
Ora cerchiamo di capire che cos’è il bersaglio del nostro farmaco.

Il batterio è un microrganismo vivente piccolissimo, di alcuni micron di diametro, unicellulare, ovvero formato da una sola cellula dotata di una parete e una membrana esterna che la separano dall’ambiente esterno, di materiale genetico, e di tutta una serie di apparati ed enzimi che le consentono di avere un proprio metabolismo. L’antibiotico (ce ne sono di diverse classi) agisce bloccando alcune funzioni vitali del batterio, uccidendolo (batterici) o impedendone la moltiplicazione (batteriostatici).
Per contro il batterio mette in atto delle difese. Basti pensare, per esempio, che alcuni batteri hanno sviluppato nel tempo svariate strategie, come la formazione di pompe di efflusso che “sputano” fuori dalla cellula l’antibiotico, mentre altri ne disattivano la funzione spezzando l’antibiotico e altri ancora bloccano il sito laddove la molecola dell’antibiotico si attacca. Insomma una guerra combattuta senza sosta utilizzando strategie e controstrategie molto sofisticate. Una lotta dove l’uso indiscriminato degli antibiotici ha prodotto quelli che la medicina ora definisce come super batteri, capaci di resistere anche all’azione dei più potenti antibiotici.

Il virus è fatto di altra pasta, tanto che ancora oggi si discute se sia una forma di vita oppure no e c’è persino chi lo definisce un "essere ai margini della vita". Innanzitutto non è una cellula, ma una particella ancora più piccola del batterio che non può sopravvivere da solo a lungo nell’ambiente: per vivere e moltiplicarsi deve invadere una cellula di un altro organismo, che può essere un animale, una pianta o anche un batterio. Il virus ha quindi una struttura molto più semplice di un batterio.
La particella virale è costituita da materiale genetico (DNA o RNA), da un involucro protettivo (il capside) di proteine, e talvolta lipidi, che si integra all’interno della cellula vivente in un altro organismo e la utilizza per riprodurre se stesso. Si moltiplica dentro alla cellula fino a farla scoppiare, propagando così le particelle virali.

Come si combatte il virus? È chiaro che l’antibiotico non ha appigli per contrastarlo. Visto che il virus usa vie metaboliche vitali all’interno delle cellule ospiti per replicarsi, è difficile da eliminare senza usare farmaci che siano tossici alle cellule dell’ospite. Per questo la medicina da oltre un secolo ha capito che l’approccio più efficace per le (molte) malattie virali sono le vaccinazioni, in grado di indurre una protezione immunitaria nell’ospite, mentre i farmaci antivirali ad oggi sviluppati sono pochi e agiscono selettivamente su alcuni virus specifici (come i virus herpetici, i virus delle epatiti B o C oppure l’HIV).
In molti casi i farmaci antivirali sono analoghi nucleosidici che ingannano il virus e lo portano a costruire materiale genetico inattivo impedendo la costruzione di nuove particelle virali e la replicazione all’interno della cellula infettata. Altri farmaci antivirali inibiscono enzimi utilizzati dal virus per assemblare nuove particelle virali e uscire dalla cellula oppure bloccano l’integrazione del virus nella cellula. Anche in questo caso, come per i batteri, per ogni nuovo farmaco antivirale prodotto dall’uomo nel tempo si sviluppano ceppi virali che hanno messo in atto meccanismi di inattivazione o resistenza al farmaco stesso.
E la battaglia prosegue…

Lo sai che

Nella storia della scoperta dell’antibiotico c’è un precursore italiano. Parliamo di Vincenzo Tiberio, medico dell'Università di Napoli, che già nel 1895 descrisse il potere battericida di alcune muffe. Ad attirare la sua attenzione fu un pozzo ai cui bordi si formavano delle muffe: quando il pozzo ne era pieno notava che le persone che bevevano quell’acqua erano meno esposte a gastroenteriti e diarree, quando veniva pulito i disturbi batterici aumentavano improvvisamente. Per l’antibiotico bisognerà però attendere il 1928, anno in cui Alexander Fleming scoprì casualmente la penicillina.