IL GIOCO È UNA COSA SERIA

di Manuela Trinci, psicoterapeuta infantile, direzione scientifica ludo-biblio AOU Meyer

Cucù… bausettete: un gioco dal sapore d’infanzia, come il pane con l’olio o con il burro e marmellata. Un lessico familiare: mani sul volto, un attimo di attesa e: bubu… settete! Mamma? Babbo? Ci sei o non ci sei? Di fatto per i genitori è la prova di una coreografia da imparare a memoria e da ripetere infinite volte. Ancora e ancora. Fino a quando ogni gesto non sarà conosciuto dal bebè, ogni movimento atteso, ogni emozione ravvisata.

Piccolo rito liberatorio. Si compie così, attraverso il gioco più comune del mondo, un rito liberatorio, una piccola catarsi che mima, per il piccino, il passaggio dalla paura dell’abbandono, della perdita, alla rassicurazione, alla presenza: perché se anche scompare alla vista, la mamma ritorna, c’è sempre. Gli psico-esperti sostengono, infatti, come nelle fasi iniziali dello sviluppo, almeno sin verso i sei/sette mesi, il bebè risulti incapace di comprendere che oggetti e persone continuano a esistere pur se non visibili e controllabili dai suoi occhi. Serve tempo perché il piccolo possa raggiungere una tale consapevolezza, tecnicamente detta permanenza dell’oggetto, consapevolezza cruciale per la sua crescita cognitiva e affettiva. Ma a sviluppare e rafforzare la capacità di immaginare dove si troveranno mai gli oggetti scomparsi dalla visuale del pargolo, oltre alle carezzevoli, rassicuranti, cure familiari, contribuisce proprio il gioco del cucù, che in più lo allenerà al distacco dagli stessi genitori. Diciamo pure che giocando ogni bambino si confronta in modo diverso con il mondo, trasforma la realtà, la rappresenta piano piano in modo simbolico, la reinventa. Con il gioco del cucù si è sempre sostenuto che il piccolo, nella reciprocità affettuosa del perdersi e ritrovarsi, prova a impadronirsi delle normali turbolenze “abbandoniche”, cercando di trasfigurarle in un'esperienza giocosa, controllabile, che gli permetta, gradualmente, di sostenere la separazione e la solitudine.

Un gioco che cresce con lui. Tantissime saranno poi le varianti del cucù che, crescendo, i bambini propongono. Magari, verso l’anno, iniziano loro stessi a nascondersi il volto fra le mani. Altre volte gettano pupazzi e palline sotto il divano o oltre la soglia della stanza per poi correre, con impeto olimpionico, a riprenderli. O ancora quando, dopo aver scoperto che un dito entra perfettamente nel naso, giocano davanti allo specchio e tentano di stanare quello stalker riflesso, inquietante eppure maledettamente irresistibile, che non si può toccare neppure andando a tastoni dietro e oltre lo specchio! Recentemente poi Gerrod Parrott and Henry Gleitman - psicologi dell’età evolutiva - in una ricerca sul gioco peek-a-boo, hanno spiegato come il divertimento del cucù sia dovuto inizialmente alla soddisfazione delle aspettative del bambino: ricompare, vale a dire, il volto conosciuto e atteso. Ma più il ragazzino cresce, più si appassiona alla sorpresa, all’inaspettato, per cui sostituendo l’adulto conosciuto e atteso con un altro - mentre il bambino non vede - si amplificano le grida di soddisfazione e i sorrisi! E dunque bambini moderni, più esplorativi e più indipendenti… ma sicuramente gli adulti, legionari del cucù, non abdicheranno facilmente al proprio ruolo perché, in fondo in fondo, all’esserci e non esserci, a quel gioco del cucù che somiglia terribilmente alla vita stessa, mai si smette di giocare.