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IL GIOCO È UNA COSA SERIA

di Manuela Trinci, psicoterapeuta infantile, direzione scientifica ludo-biblio AOU Meyer

Ma davvero si può parlare di “gioco solitario”? I pedagogisti lo fanno ma ai più, genitori e insegnanti in testa, può sembrare una vera e propria contraddizione! In effetti, del gioco dei bambini e fra i bambini, per lo più si sono enfatizzate le peculiarità utili per raggiungere la socializzazione e per molti anni si è pensato che le attività ludiche solitarie fossero confinate alle prime fasi dello sviluppo infantile. Tanto che nella seconda meta degli anni '20 Mildren Parten – eminente studiosa del Minnesota – ritenne che il perdurare di differenti forme di “gioco solitario” (condotto soprattutto con oggetti) fosse espressione addirittura di immaturità sociale cognitiva e emotiva. Negli anni ’70, gli studiosi e i ricercatori, sebbene annotassero come anche le attività svolte in solitudine apparissero talora attive e orientate a un fine preciso, rivolsero soprattutto la loro attenzione verso le interazioni fra pari, considerando quindi il gioco e il giocare come un motore dello sviluppo. E il gioco solitario, indagato con sospetto, finì relegato in una sorta di classificazione che lo riteneva tipico dei Withdrawn children, bambini timidi, prudenti, reticenti a entrare in contatto con i coetanei.

Intanto però alcune domande si affacciavano alla mente: una tale forma di gioco è prerogativa dei bambini isolati, oppure appartiene a tutti i bambini? E’ giusto contrapporre il gioco solitario alla socializzazione considerandolo un sintomo del ritiro sociale?
Si ritenne allora che fosse stata soprattutto la parola “solitario” a inquietare gli adulti che quasi all’unisono pongono al bando la solitudine, considerandola qualcosa che non si addice all’infanzia. Prova ne sia stato e ne sia il crescendo inarrestabile di impegni e di svaghi e giocattoli rigorosamente programmati o inventati con la finalità di sconfiggere una volta per tutte la solitudine.

Uno sguardo diverso sulla solitudine infantile e conseguentemente sul gioco solitario (a tutte le età!) si deve al pediatra e psicoanalista Donald Winnicott il quale vide nella solitudine infantile “lo spazio e il tempo per consentire alle innate capacità biologiche del bambino di maturare portandolo allo stato di persona”. Non si tratta, dunque, di uno stato psichico di inerzia o di svagata indifferenza o di insulsaggine o di semplice pigrizia dell’animo, e neppure di una forma di fuga da un eccessivo attivismo o pragmatismo, piuttosto – postulò lo studioso britannico – si tratta di “un’abilità dell’IO”, caratterizzata da una quiete vigile e da una consapevolezza ricettiva e sensibile. Un’abilità trascurata che Winnicott pose alla fonte della creatività stessa, della capacità d’amare e della gioiosa spontaneità infantile.

Detto questo, oggigiorno ai genitori spetta, come sempre, il difficile compito di individuare, di una tale “raffinatissima forma di maturità”, la misura e quindi il discrimine fra un gioco solitario che sia una risorsa, un’espressione semplicemente del bisogno di riposo per meditare elaborare e riappropriarsi anche di se stessi dopo un’esperienza prolungata di stimolazione sociale oppure, di contro, che il gioco solitario sia, davvero, uno dei tanti possibili segnali di malessere.

Tenendo ben presente che stare da soli e stare con gli altri non sono certo abilità contrapposte bensì complementari.
Inoltre, se, per crescere bene, la solitudine è un’arte da coltivare conviene non sollecitare troppo i figli nel registro del “fare”, fare… e fare persino amicizie. Perché, come scriveva Nina Berberova nel Giunco mormorante, bisogna avere pena delle persone “che sono sole unicamente nella stanza da bagno”!