BUONO A SAPERSI

a cura di Jacopo Barp, pediatrica AOU Meyer

Esistono precise definizioni di stipsi, basate essenzialmente sulla frequenza delle evacuazioni e utili in campo scientifico e accademico. Nella pratica quotidiana risulta tuttavia più indicato prestare attenzione alle caratteristiche delle feci. Il ritmo di evacuazione è infatti proprio di ogni persona, e il fatto di non evacuare tutti i giorni non deve essere interpretato a priori come indicatore di stitichezza. È davanti a un bambino che emetta feci dure, secche, molto voluminose o “a palline” (feci caprine), magari con sforzo e associate a dolore addominale o anale, che dobbiamo effettivamente pensare alla stipsi.

Attenzione a non confondere la stipsi con la “dischezia del lattante”, una situazione relativamente comune e innocua, espressione di una fisiologica immaturità dei meccanismi neuromuscolari deputati al controllo dell’evacuazione, presente in lattanti peraltro sani e con adeguato accrescimento: questi bambini tendono a presentare pianto e arrossamento del volto in corso di tentativi di evacuazione, con emissione di feci morbide associate alla risoluzione dei disturbi.

La stragrande maggioranza dei casi di stipsi (oltre il 90%) è di origine funzionale, non si configura cioè come patologia né deve essere ritenuta conseguenza di malattie d’organo. Le cause possono essere varie: cambiamenti di abitudini alimentari (come il passaggio all’alimentazione complementare durante lo svezzamento o lo scarso introito di fibre), un generale cambiamento di abitudini (frequenza scolastica, viaggi/vacanze), il passaggio dal pannolino al vasino, eventi stressanti ambientali, il decorso di alcune malattie (ad esempio la fase di convalescenza dopo una gastroenterite). I bambini possono poi presentare degli atteggiamenti ritentivi, associando il momento dell’evacuazione a una perdita di tempo rispetto, per esempio, al poter continuare a giocare; oppure hanno vissuto un’esperienza di evacuazione dolorosa che ha innescato un comportamento di ritenzione attiva delle feci per paura di avvertire dolore. In caso di stitichezza associata a disturbi evidenti e persistenti (evacuazioni infrequenti di feci dure, ragadi anali, dolori addominali, nausea e scarso appetito, irritabilità) è utile rivolgersi al pediatra: la raccolta dei dati anamnestici e la visita saranno nella maggioranza dei casi sufficienti a escludere condizioni secondarie alla base del problema, e a poter avviare il trattamento adeguato. In alcuni casi il pediatra potrà richiedere alcuni semplici accertamenti (esami ematici di I livello, eventualmente un’ecografia dell’addome). Solo in casi selezionati è necessario l’invio da parte del curante a strutture ospedaliere. Per quanto riguarda il trattamento, è fondamentale innanzitutto mantenere o recuperare uno stile di vita sano e regolare, sia dal punto di vista dell’alimentazione (corretto apporto di fibre e liquidi) sia dell’attività fisica.

Se questo primo approccio non si rivela risolutivo è possibile intervenire con rammollitori fecali, associando, quando possibile, pratiche di comportamento finalizzate alla acquisizione dell’autonomia nell’andare in bagno (“toilette training”). Sono invece da evitare misure di stimolazione rettale con sondini, clisteri, cotton fiocc etc, come anche prodotti di erboristeria o somministrazione di olii per bocca. Oggi si utilizzano essenzialmente rammollitori fecali a base di macrogol, che ha la funzione di rendere le feci più idratate limitando il riassorbimento di acqua da parte del colon. Tali prodotti possono essere usati anche per lunghi periodi, modulandone le dosi secondo necessità e sotto controllo del medico curante. Fondamentale è associare all’approccio “farmacologico” il toilette training, invitando il bambino a evacuare dopo i pasti principali o ancora meglio aiutarlo a recuperare una sensibilità nei confronti dei segnali corporei di impellente evacuazione (dolore addominale, flatulenza etc). Utile anche rendere più confortevole la seduta del water con un riduttore.