A PROPOSITO DI FELICITÀ

a cura di Manila Bonciani, responsabile del Meyer Center for Health and Happiness

I ragazzi hanno ripreso da poco la scuola e l’attività sportiva e in entrambi i contesti si trovano sempre più spesso coinvolti in dinamiche basate su una spiccata competizione, fenomeno che culturalmente consideriamo necessario e utile. Ma la competizione fa bene ai ragazzi?

Il concetto di competizione si riferisce originariamente al fatto che in natura gli organismi entrano in lotta tra loro per assicurarsi l’uso delle risorse limitate che l’ambiente mette a disposizione. Si tratta di un’interazione ecologica su cui si basa la stessa sopravvivenza e riproduzione di individui e specie. Traslando questa visione evoluzionista nel contesto sociale, di fatto la competizione rappresenta un fenomeno pervasivo nel quale la prevaricazione sull’altro è pensata spesso come l’unica strategia efficace per affermarsi. La visione predominante, infatti, è che nella vita dobbiamo essere competitivi in modo da raggiungere sempre il massimo delle proprie possibilità fisiche e intellettive. Spesso come genitori chiediamo ai nostri figli di essere i più bravi, i migliori, che sia nella scuola o nello sport, complice un certo orientamento dell’ambiente scolastico e sportivo, che però contribuiamo ad alimentare con questo atteggiamento. Di conseguenza gli stessi ragazzi sono portati a voler superare sempre gli altri e vedere anche a scuola i compagni come avversari.

Questa competitività così dilagante, che si coniuga con un approccio basato su concorrenza, antagonismo e rivalità, è stata ritenuta in passato anche in abito pedagogico un importante fattore di stimolo in vista dello sviluppo di particolari abilità o del conseguimento di migliori risultati nell’apprendimento. Attualmente, anche quando non se ne rifiuta del tutto il valore educativo, vengono messi in luce i molteplici limiti e le conseguenze negative che la competitività comporta.

Essa infatti costituisce per i ragazzi una pressione a essere perfetti che provoca in loro ansia e stress, dai quali possono anche essere sopraffatti quando non riescono a esserlo e a soddisfare così le aspettative che sentono su di loro da parte degli altri. Un contesto competitivo, oltre a ostacolare l’instaurarsi di relazioni interpersonali positive, può indurre i ragazzi che ne fanno parte a non sentirsi mai all’altezza e minare così il loro livello di autostima, e spingerli a credere di non essere abbastanza bravi per realizzare i propri sogni. Invece di rappresentare uno stimolo, quindi, la competitività rischia di avere un effetto demotivante per loro, che possono sentirsi scoraggiati ed essere portati, come reazione difensiva, a rinunciare in partenza alle sfide che emergono.

Queste critiche sono respinte da coloro che cercano di promuovere una competizione sana nella scuola e nello sport, perché la ritengono invece uno strumento che spinge a fare sempre il proprio meglio, senza accontentarsi del minimo indispensabile, e a impegnarsi in ogni circostanza a dare il massimo e a cercare di migliorarsi. In quest’ottica la competizione può far bene nella vita perché abitua a non arrendersi subito di fronte alle difficoltà e a cercare di superarle, ma anche a fare i conti con la frustrazione del mancato risultato.
Riuscire a mantenere un contesto in cui si compete senza eccessi, nelle quali le sfide diventano progressivamente più impegnative ma comunque sempre raggiungibili, può contribuire a rafforzare la consapevolezza dei propri limiti e allo stesso tempo delle proprie competenze. Il rischio però che la competizione si trasformi in competitività è sempre presente, volendo con i due termini distinguere gli aspetti positivi da quelli negativi di questa modalità d’interazione, perché è facile che prenda spazio l’aggressività verso gli altri o anche semplicemente cominci a prevalere un forte desiderio di primeggiare.
La contrapposizione tra vincitori e perdenti, con la conseguente invidia per i primi e respingimento e biasimo per gli altri, viene facilmente fomentata in ambienti competitivi, dove prevale maggiormente la dimensione individualistica rispetto a quella di gruppo. Nello sport e ancor più nella scuola dovrebbe invece essere sostenuto l’instaurarsi di un contesto collaborativo, in cui si lavora insieme, si condividono le risorse, si compie uno sforzo collettivo per un obiettivo comune, si incoraggia l’altro a riuscire e lo si aiuta concretamente perché il successo altrui corrisponde al proprio.
In un simile ambiente, quando si vede che il compagno di classe o della squadra ha una competenza superiore, non si percepisce il fastidio di sentirsi meno valido, ma si ha il piacere di imparare anche per imitazione o comunque di riconoscere nell’altro quello che può essere il proprio potenziale di sviluppo.

Lo sforzo da genitori è quello di provare a far proprio un atteggiamento che evita di riversare sui figli eccessive aspettative, che cerca di fornire loro sempre critiche costruttive e che si orienta non solo al risultato, ma al processo che ha permesso di conseguirlo, spingendo perché anche gli insegnanti, i dirigenti scolastici, gli allenatori e le relative società sportive se ne facciano promotori. Impegnarsi così tutti insieme ad abbandonare la tendenza a leggere le differenze in termini di classifiche e riportare l’attenzione sulla costruzione di spazi di relazione e benessere nella scuola e nello sport.